Il 2018 è stato un anno intenso e importante: non in termini di numeri, né di accumuli. Non è stato un anno di quantità, piuttosto di esperienze forti e intermittenti, di poche persone che hanno lasciato il segno, di esigui ma fondamentali desideri realizzati e di obiettivi irrealistici lasciati andare (e no, lasciare andare per me non è un affare semplice).
Gli ultimi due mesi poi sono stati difficili e strani, sono accadute cose inaspettate che mi hanno costretta a uno stop improvviso, di quelli che poi quello che conta è solo come stai e il tempo che ti serve a riprenderti. Solo da qualche parte nel 2019 mi sentirò di raccontare quest’esperienza, che poi è bellissima e per ora rimane un evento in divenire, da attraversare giorno dopo giorno.
Ora accolgo questo gennaio con speranza e con la ricchezza delle lezioni imparate lo scorso anno, che ho deciso di condividere, per ripercorrerle e non dimenticarle.
Focalizzare gli obiettivi – quanto è difficile?
Me lo sono chiesta, sul serio, dove si incastrano le liste di propositi e obbiettivi che facciamo a inizio anno e che si perdono nelle maglie delle settimane e dei mesi? Nonostante siamo persone dalla volontà forte, che ce l’hanno fatta in una moltitudini di eventi, quella cosa lì, quella che diciamo di volere, come mai non riusciamo a farla accadere?
Io ho capito questo di me: gli obiettivi che sceglievo erano troppi e quando sono troppi ti fanno l’effetto opposto, dalla spinta ti portano alla paralisi. E poi: gli obiettivi non realizzati non li volevo veramente, non erano allineati a me, non erano miei. Erano arrivati là chissà come, assorbiti dalle tendenze esterne, dai ciò che “funziona” o che “è fondamentale”, dal vizio di ascoltare più fuori che dentro. L’unica cosa che ha avuto senso quindi, è stata fare silenzio, ascoltare me e decidere che cosa è importante, rinunciando al resto, anche quando è allettante e scintillante. Quest’anno ho davanti pochissime cose, molto chiare.
L’attesa
Complici gli anni trascorsi in Germania, ho inglobato un certo ritmo rapido, veloce, di cose fatte il prima possibile e to do list cancellate senza tregua. Ho vissuto in un certo stato di adrenalina, dove ciò che contava era portare a termine e chiudere e la parola d’ordine era “il prima possibile”. Poi sono venuta a vivere agli antipodi e io ci credo che i luoghi trasmettano il loro ritmo a chi ci vive e qua, anno dopo anno, la lentezza della Sardegna si è imposta implacabilmente sulla frenesia del fare. Così ci ho dovuto fare i conti, con quello spazio di attesa forzata. E con la verità per cui alcune cose hanno risposte che non arrivano subito, ma hanno necessità di sedimentare, prendere qualche ora, giorno o settimana di respiro.
In potenza e in atto
Se dovessi scegliere i proverbi che fin da piccola mi danno l’orticaria, sarebbero questi: “chi ha tempo non aspetti tempo” e “tra dire il fare c’è di mezzo il mare“. E come ogni cosa che ci dà troppo fastidio, nasconde qualche nodo lasciato là, a prendere posto tra le cose irrisolte.
Il primo di questi proverbi, infatti, aggrediva la mia indole riflessiva e tesa a vivere nel potenziale e non nell’atto, a spostare a domani… quella decisione, quel passo, quell’avanzare necessario a realizzare le cose. Il secondo fa a pugni con la parte creativa di me, che vuole dare vita a idee, visioni, modelli e poi… e poi deve ricordare i limiti del reale e farci i conti. Entrambi mi infastidivano perché ricordavano che tra il piano immaginario e quello reale c’è uno scarto che sta a noi risolvere con le cose pratiche, con i tentativi, con gli sbagli, con i passetti, i tentennamenti, i prova e riprova. Quest’anno ho capito questo quindi: meglio, per me, ora, un’azione compiuta che dieci idee brillanti.